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Raccontare per non dissolversi nell'oblio

Rosangela RiccoEssa mi attrae e si nega, mi tenta, ma non riesco a farne che una velleità. La vita dell’opera non sgorga come acqua viva e pura, ma resta un grumo informe e impiastricciato.

Penso che, come il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche e come il Barney Panofsky de La versione di Barney, non potrò che fare i conti con miriadi di frammenti, piccoli pezzi, tutto ciò che resta del sogno di una vita o di una vita sognata. “È passato il tempo in cui le parole affioravano svelte / affollandosi a grappoli / ansiose / di un altro risveglio / trepidanti al richiamo di un nuovo mondo / ed era come un gioco…”. Ma scrivere è un’urgenza che non può essere ignorata né rimandata. Ed ora non posso più aspettare, anche se non riuscirò a ricomporre l’infranto. Prima che sia troppo tardi.

Già alle soglie del mio trentesimo anno avevo avuto un funesto presagio, quando per caso mi ero imbattuta nel libro omonimo della Bachmann. Leggendo quel racconto, che dovetti interrompere perché mi toglieva il respiro, sentii tutto il peso e il fascino dell’entropia: c’è un’emorragia di vita impercettibile mentre viviamo. Ben l’aveva intuito T. S. Eliot, quando chiedeva: “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?”. A un certo punto non so più come, né quando deve avermi colta come un urto la lucida consapevolezza del tempo che fugge, anzi che sfugge, sereno e inesorabile, indifferente e relativo. Tutti devono aver provato, almeno una volta, anche se confusamente, questo senso di sgomento. Vago, indefinibile, eppure sottile e penetrante. E la vertigine che ne segue. Ma la vertigine, come suggerisce Kundera né L’insostenibile leggerezza dell’essere, non nasce dalla paura di cadere, bensì dalla tentazione di lasciarsi andare, dalla irresistibile attrazione che il vuoto esercita su di noi dopo che abbiamo guardato in basso, consumandoci come un desiderio ardente.

Pavese aveva espresso, prima di giungere ad ulteriori più drastiche risoluzioni, la necessità di “rapprendersi in parole” per non disperdersi nel tempo che fluisce e non ci appartiene, se non a tratti e in modo ingannevole. Le parole s’incarnano, si fanno sangue e vita, anche se sarà una vita imperfetta. Sento agitarsi e palpitare in me l’indole di un’antica e inafferrabile creatura, il suo entusiasmo, la sua follia: la menade. Le menadi sono esseri mitologici, donne che in preda alla mania celebrano un rituale ancestrale, pervase dal dio che, una volta entrato in loro, le rapisce, portandole altrove, fuori da sé stesse, lontane, a esplorare mondi sconosciuti. I loro impeti sono incontenibili, il loro furore indomabile. Il dio che seguono è Dioniso, dio dell’ebbrezza, loro compagno di viaggio è Orfeo, il più dolce, il più struggente dei poeti mitici. Colui che con il suo canto era riuscito a vincere le potenze degli inferi e la morte e poi aveva perso tutto per un solo momento di smarrimento, per un fremito di nostalgia, per il brivido di un desiderio invincibile.

Tuttavia, nel corteo delle menadi ce n’è una infelice. Lei è diversa. La sua natura è ambigua. Segue il dio, ma l’ebbrezza non basta. Non passa. Vuole possederlo, trattenerlo. Ma sa che è impossibile. Questo la ucciderà. Dilaniandola. Il suo stesso destino la tradirà. Annientandola. E allora, non le resta, per non dissolversi nel nulla, nell’oblio senza fine e senza forma, che il racconto. Raccontare per non sentire il dolore del disfacimento e lasciare una traccia di sé. Da seguire, come lei un tempo aveva fatto con il dio, fino al delirio. Prima che sia troppo tardi.

Rosangela Ricco


Cercatrice di parole, Mariatina Alò costruisce nuovi cammini da esplorare

Mariatina Alò

Nata a Cosenza nel 1974, sono cercatrice di parole e aspirante poetessa. Laureata in giurisprudenza e specializzata in progettazione sociale, facilitatrice della comunicazione e mediatrice, ho lavorato in molti contesti, pubblici e privati, occupandomi di progetti di prevenzione del disagio e promozione del benessere di adolescenti e giovani adulti. Ho iniziato, da studentessa, come volontaria presso il Centro Arcobaleno, Volontariato Vincenziano, luogo in cui ho costruito legami significativi, mi sono nutrita di umanità e valori come la solidarietà, la gratuità e la cittadinanza attiva, in un percorso di immensa crescita umana e professionale. Nel 2015, mi sono trasferita con mio marito a Zurigo, e, dopo un anno, ci siamo spostati a Losanna. Qui, ho collaborato con la fondazione Luklass, la quale, sostenuta dalla fondazione Ikea, ha realizzato un imponente progetto per la costruzione di scuole in Nepal.

Promosso dal Circolo italiano di Losanna, ho avviato un percorso socio affettivo rivolto alle donne italiane, che ha avuto come focus principale l’esplorazione della propria storia di migrazione, attraverso l’uso della scrittura autobiografica. Dal 2019, dopo la nascita di Zoe Isabella siamo tornati in Italia e viviamo a Conversano. Faccio la mamma e, intanto, costruisco nuovi cammini da esplorare. Scrivo e pubblico da molti anni, le mie poesie sono presenti in diverse edizioni de “L’agenda del poeta” Casa editrice Pagine, Elio Pecora. Premi conseguiti: premio speciale alla 3° Rassegna d’Arte “Città di Montecatini”, 3° premio Rassegna d’Arte e Letteratura in Versilia Natale 2002, premio speciale al 17° ed al 18° Premio “Giovanni Gronchi”, terzo premio alla Rassegna d’Arte e Letteratura in Versilia 2002, 5° premio al XXIV Concorso nazionale di Narrativa e Poesia “Franco Bargagna”. Finalista al concorso “Il mio esordio 2015” con la raccolta di poesie “Considerando lo stato delle cose”. Finalista al concorso “Il mio esordio 2017” con la raccolta di poesie “Passeggeri irrisolti”. Ho pubblicato con Placebook editrice, la silloge poetica “Una luce minima” nel 2020.

 

Le reazioni emotive o le lacrime di una donna sono state sempre considerate un sintomo di debolezza. Le battaglie vinte negli ultimi decenni dai movimenti femminili non sono ancora sufficienti per eliminare la volgarità di giudizi come “tiene gli attributi come un uomo” riservati alle donne che con determinazione difendono i loro diritti. Ma la sensibilità deve restare soltanto un patrimonio delle donne?

 

“Ho pianto perché il processo grazie al quale sono divenuta donna è stato doloroso.” ‘Ho pianto’ comincia così una struggente poesia di Anaïs Nin, il pianto come atto catartico. ‘Ho pianto’ ripete la poesia, come una litania, un atto di liberazione, di trasformazione. La donna dà voce alla sofferenza e si mostra nella sua pienezza, consacra il suo sentire e lo onora, vivendolo. Gettati in un mondo che non riusciamo a nominare, deprivati, risentiti, senza un alfabeto emozionale che ci sostenga, che ci salvi, giunge un grido, da parte di adolescenti, ma anche di adulti, un grido muto e atroce: il bisogno d’essere ascoltati, accolti nel proprio dolore, la necessità urgente d’avere parole sacre per nominare le emozioni, per darsi e dare significato agli eventi. Acquisire il lessico delle emozioni, rifondare il territorio della comunicazione tra generazioni e tra generi, significa promuovere una comunità di esseri umani senzienti, capaci di stare con la propria fragilità e con quella dell’altro, prerogativa dell’essere umano, senza differenze di genere.

 

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