Parole “a caldo” dopo la lettura del romanzo di esordio di Giorgia Giuliano
Lo confesso: il titolo non mi piaceva. Ho incominciato a leggere “Champs-Elysèes a Shibuya” (Albatros, 2020) perché avevo promesso di scrivere una recensione a Giorgia, l’autrice che ho conosciuto quando era una studentessa, molto esuberante e vivace, dei corsi di inglese organizzati anni fa dal Centro di Lettura Globeglotter.
Depistata da un primo capitolo “in salsa giapponese”, ho incominciato a capire la trama dal secondo capitolo in poi e soprattutto ho verificato, per l’ennesima volta, quello che sia io che Erri De Luca pensiamo dei libri. “Questo è quello che io cerco nei libri quando li apro, il pezzetto che è stato scritto per me che mi spiega qualcosa di me. Qualcosa che possedevo già sotto la pelle, ma che non sapevo dire…” Non ho trovato assurda la relazione tra la giornalista giapponese Akemi Abe e il panettiere francese Gatien, una folle attrazione che nel complesso dura solo qualche giorno; non ho percepito alcuna stranezza nella decisione di lasciare, senza alcun trauma esistenziale, il proprio lavoro di dirigente di banca per diventare un “artista del pane”. Tutto mi è apparso in linea con il desiderio di ciascuno di noi di “riscrivere la propria vita” seguendo talenti e attutendo inquietudini. Parla, in nome e per conto di tutti i lettori inquieti, Gatien, uno dei protagonisti del romanzo: “Mentre la gente depositava denaro, io lo spendevo in corsi, libri, scuole di panificazione.
Sono lievitato. Significa che con il tempo sono migliorato fino a rinascere”. Leggendo lievita in noi il desiderio di prendere immediatamente un volo per Parigi ed arrivare in tempo la mattina alle 6, quando apre la boulangerie di Gatien, per acquistare un croissant, una Madeileine o una baguette che sprizza profumi inebrianti e che “tampona le ferite prima ancora che comincino a sanguinare”. Il pane è una metafora, una medicina che cura l’anima. Ma il romanzo è infarcito anche di altri ingredienti che rendono la lettura piacevole: uno stile brillante e immagini ardue che costringono il lettore a sottolineare con una matita “le suole affrante” di Gatien e Akemi che, dopo aver camminato di notte, vedono la loro passione esplodere come un “ordigno silenzioso” che non produce morti ma solo feriti. E poi la sorpresa finale. La trama non è più un vestito che ci va stretto ma un largo “Sari” indiano che possiamo riavvolgere come meglio crediamo sul nostro corpo e sulla nostra anima. In breve: Un libro da leggere, anche in piedi, senza se e senza ma. Facile da portare in tasca.
Antonietta D’Introno