Seduta sulla panchina leggevo i quotidiani all’ombra e alla frescura della grande quercia di Trinitapoli.
Lentamente scompaiono le bottiglie della salsa, sostituite dai più comodi boccacci a chiusura ermetica che si acquistano nei supermercati.
Lentamente scompare un modo di vivere, di trascorrere momenti allegri in compagnia dell’intero vicinato che “dava una mano” ad un’attività centrale per l’economia e la qualità del cibo della famiglia.
Velocemente si procede verso gli acquisti della spesa quotidiana online: clicchi quello che ti serve e un corriere te lo recapita a casa, senza chiacchiere e barzellette di contorno.
Nonna Dorina, ormai immobilizzata da qualche anno, urla quando vede le scatolette dei pelati comprate dai nipoti e spiega loro come si fa la salsa, perché “il profumo che esce da una bottiglia ti “abbuffàisc” (ti riempie) già prima di mangiare gli spaghetti al pomodoro”!
Un tempo Dorina preferiva fare la salsa dopo ferragosto perché “i pomodori sono più dolci e, se non è piovuto, contengono meno acqua”.
Le grandi famiglie si procuravano 2/3 quintali di pomodori che andavano lavati e bolliti in grandi “ialtàun” (pentoloni) sul fuoco acceso negli “scoperti” delle case a pianterreno, oppure in campagna.
A metà cottura i pomodori si passavano e con la salsa ottenuta si riempivano le bottiglie, si aggiungevano le foglie del basilico e si chiudevano con i tappi di sughero.
A questa operazione ne seguiva un’altra ancora più precisa e meticolosa. Si sistemavano con cura le bottiglie in un grande pentolone di zinco, si riempiva d’acqua e si attendeva la bollitura per ore intorno al fuoco. Il bollore, secondo le opinioni degli anziani, doveva durare almeno tre quarti d’ora. Si attendeva, poi, che si raffreddassero le bottiglie e si conservavano per l’inverno.
Grande discussione c’era nelle case dove la suocera, ad esempio, proveniva da Margherita di Savoia e la nuora era di Trinitapoli. Infatti “il metodo salinaro” di conservazione della salsa era diverso. Si usava la tecnica delle “bottiglie coricate”.
In breve: appena riempite di salsa bollente, le bottiglie venivano appunto “coricate” sotto le coperte e la paglia dove rimanevano una decina di giorni per poi essere sistemate nei ripostigli. Si diceva che la salsa era più “amurevole” (profumata e saporita) perché veniva cotta una sola volta.
La salsa era una tradizione che aveva lo scopo di preparare il cibo per l’inverno ma era anche una occasione per grandi riunioni di famiglie e di amici. Le anziane erano le maestre e le più giovani seguivano tutte i loro consigli. La prima domanda di rito rivolta alle ragazze era: “mnè, siete tutte pulite?” (cioè: per caso avete il ciclo mestruale?). C’era il rischio, secondo la credenza, che le bottiglie scoppiassero.
Tutte le operazioni relative alla preparazione della salsa spesso duravano l’intera notte. Nell’attesa della bollitura, intorno al fuoco si mangiava, si cantava, si raccontavano vecchie storie di paese e dopo aver messo a letto i bambini, “le anime innocenti”, i più sfrontati sciorinavano il repertorio delle barzellette spinte.
Erano tempi di slow food, di lente preparazioni di sughi e ragù che avevano bisogno di ore. Le famiglie privilegiavano il risparmio, la qualità del cibo e soprattutto l’aspetto sociale di un’attività che riuniva parenti e vicini di casa.
Tempo perso o tempo investito bene?
Nonna Dorina dice sempre che la scatoletta è il simbolo di chi non vuole perdere tempo a vivere come “i cristiòn”, come quelle persone, cioè, che si incontrano, chiacchierano, si aiutano nei lavori più grossi della casa, fanno scuola ai più piccoli e invitano i vicini a pranzo per commentare la riuscita della salsa dopo l’apertura delle prime bottiglie. Se il sugo è buono, si regala, come bomboniera, una bottiglia a testa. In inverno, quando in campagna non si lavora, le provviste di salsa, di farina, di mandorle, di zucchero e di olio rendono la vita meno precaria.
ANTONIETTA D’INTRONO
Via: Corriereofanto