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[La chiave girò nella serratura e lei puntò dritto verso il terzo ripiano, tanto il ricordo la guidava con precisione. Afferrò il boccale azzurro, ne stappò via il turacciolo…] e, in un moto estremo di attaccamento alla vita, come a dare un accorato addio al mondo che aveva deciso di abbandonare, guardò l’unico umano presente, Justin, che la osservava atterrito, con gli occhi spalancati e l’urlo silenzioso, soffocato dalle mani tremanti. I loro sguardi si incontrarono ed Emma vi trovò gli occhi supplichevoli della piccola Berthe e quelli bonariamente insipidi di Charles; vide l’indifferenza di Leon e l’ipocrisia di Rodolphe, la ragione di mamma Bovary e il raggiro di Lheureux. Gridò, lasciando cadere il boccale, che, frantumandosi sul pavimento, sparpagliò ovunque schegge di vetro e morte. Justin provo a balbettare qualcosa, ma era terrorizzato. Emma si precipitò fuori, scontrandosi malamente con Homais, che stava accorrendo dopo aver udito le urla e cadde rovinosamente in strada. A quel punto avvenne qualcosa di incredibile: la donna, dopo alcuni istanti di silenzio e immobilità, iniziò a singhiozzare per poi scoppiare in una risata fragorosa. Sollevò lentamente la schiena e, poggiate le mani a terra, cominciò a gattonare. La scena era talmente folle che Homais e Justin, restavano basiti sulla soglia, incapaci di agire. La moglie del farmacista, presente sulla scena, corse verso Emma e, prendendola delicatamente per le braccia, provò a sollevarla, ma la donna gridò un “No!” prolungato e acuto e la signora Homais fu costretta a rinunciare. Emma si trascinò sulle ginocchia per alcuni metri, incespicando più volte nel vestito, ma senza smettere di ridere e piangere. Raggiunse una pozza di acqua fangosa e, felice come una bambina in un mondo di giocattoli, iniziò a prendere manciate di poltiglia, sollevando le mani al cielo e lasciando che il fango le colasse lungo le braccia. La moglie del farmacista la seguì, tenendosi a distanza e offrendosi continuamente di accompagnarla a casa; dopo un bagno caldo sarebbe stata sicuramente meglio. “Io sto bene, benissimo vi dico. Correte a dirlo a Rodolphe, che non ho bisogno di lui e a Leon. No, a Leon dite che lo amavo, ma ora non più, non più.” Si spalmava il fango sul vestito, con cura, come fosse un unguento miracoloso che penetrasse nel tessuto, fino a raggiungere la pelle. “Ah Charles, povero Charles, stupido Charles!” e di nuovo una risata isterica a interrompere il fiume insensato di parole. Justin, riavutosi dallo sbigottimento, corse a chiamare il dottor Bovary. Nel frattempo un capannello di gente si era riunito ai margini della strada. Guardavano la scena, commentando con pietà l’atteggiamento folle della donna, ma nessuno osava avvicinarsi. Emma cessò, improvvisamente, di muoversi e vaneggiare, paralizzata come una statua, attenta a un flebile canto che proveniva dal fondo della strada. Si levò in piedi e, gridando felice “Il cieco, il cieco!”, corse a perdifiato nella direzione della voce a lei familiare. La massa di persone la seguì con lo sguardo. La donna raggiunse lo straccione, lo abbracciò, poi gli prese le mani e gli parlò come fosse il suo innamorato: “Ecco, sei venuto da me! Non avevo compreso. Provavo ribrezzo per il tuo aspetto e nausea per la tua puzza. Non sei tu quello cieco ma io, io! Guardami ora, ho nuovi colori e li amo” e così dicendo, piroettava su se stessa, lisciandosi il vestito sporco di fango. “Non vedi come sono bella?” Il cieco iniziò a ridere e ballare, accompagnandosi con la voce stridula. D’un tratto, la folla ammutolita si aprì e comparve Charles che, con gli occhi pieni di lacrime, si avvicinò alla moglie, invocando con dolcezza il suo nome: “Emma, cara, torniamo a casa. Cosa fai qui? Guarda, ti sei sporcata, vieni con me, ti curerò io.” “E’ lui, è lui!” gridò la donna “è lui, signori miei, guardatelo! Non è bianco, non è nero! Grigio forse? Chissà! Io sono colorata invece e vado via” “Ma che dici, Emma? tu vaneggi. Andiamo, la piccola Berthe ci aspetta a casa” Nell’udire il nome della sua bambina, Emma ebbe un sussulto e per un attimo sembrò tornare in sé; invece, di nuovo abbracciata alla follia, con voce irrisoria, si rivolse al marito. “Quale casa? Non c’è più una casa. Addio!” e stringendo la mano del cieco, si allontanò lungo la strada che portava fuori città, cantando a squarciagola, insieme al vagabondo. Charles, attonito, non accennava a muoversi. Homais gli andò vicino, e, indirizzando lo sguardo verso le sicurezze del dottor Bovary, che si allontanavano, ancheggiando festose, gli sussurrò con la solita aria di chi la sa lunga: “Tornerà!”, racchiudendo in quella certezza, tutta la presuntuosa ignoranza degli uomini verso la contraddittoria complessità dell’animo femminile. Charles tornò mestamente a casa e non avendo il coraggio di dire alla piccola che la sua mamma li aveva abbandonati, restò in giardino, a piangere. Venne a piovere ma lui non si mosse da lì per ore. Quando finalmente si decise a rientrare si gettò, sfinito e bagnato, sul letto. Durante la notte fu assalito da una febbre altissima, che gli fece perdere conoscenza. Non si riebbe più. Dopo tre giorni, nonostante fosse assistito dalla solerzia di Félicité, spirò. La piccola Berthe fu allora affidata alle amorevoli cure dei nonni materni. Nessuno più ebbe notizie di Emma Bovary, e, nonostante le voci di molti, che giuravano di averla vista in questo o in quel paese, il suo nome, restò legato solo alla storia della sua rovinosa esistenza e del suo incredibile epilogo.