L'Isola di fuoco

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Fu durante il mio primo viaggio a bordo del piroscafo Victoria che mi accorsi di quante cose non sapessi ancora. Avevo sedici anni eppure mi sentivo come un bambino, euforico ed emozionato per un’esperienza completamente nuova.

Quella notte, in attesa di avvistare terra all’orizzonte, osservavo il mare immenso color petrolio che sotto di me pareva un tessuto di raso cangiante leggermente rigonfio e stropicciato dal vento. Su di me vegliava una splendida luna piena come faro nella notte mentre una brezza salmastra aveva preso a schiaffeggiarmi piacevolmente il viso arrossato dal riscaldamento di bordo, eccessivo per i miei gusti.

Improvvisamente mi ritrovai a guardare in un punto a sud-ovest, attratto dai colori rosati tendenti al porpora che provenivano da quella direzione. Pensai che gli abitanti, inavvertitamente, avessero dato fuoco all’unica foresta dell’isola nel tentativo di cuocere bistecche allo spiedo. Che stupido che sono. “Per niente pragmatico” mi avrebbe gridato nelle orecchie mio padre, sempre pronto a mettermi in ridicolo in tutte le faccende da veri uomini di mare, proprio lui che si atteggiava a pescatore esperto e da anni portava a casa sogliole e basta. Siamo tutti bravi a parole.

In quel momento il capitano Watt richiamò la mia attenzione.

   -         Problemi di stomaco, ragazzo?

   -         No, signor Watt. Non ho mai visto tanta acqua tutt’intorno a me. Sto guardando quelle piccole lingue di fuoco laggiù ma non riesco a capire che cosa sono. Lo sapete voi, capitano?

   -         Seguitemi. Andiamo in cabina a bere una tazza di tè.

 

Come un segugio obbediente lo seguii, dopotutto era il mio capitano. La cabina, illuminata a giorno da tre lampade a petrolio, era piccola ma accogliente. Sulle tre pareti, quella di fondo e le due laterali, vi erano appese mappe di viaggio, acquerelli raffiguranti scene di mare incorniciati, foto in bianco e nero dell’inaugurazione della nave su cui stavamo viaggiando. Sul lato destro della stanza c’era una brandina che di giorno si prestava a interpretare il ruolo di un piccolo divano, sulla sinistra era collocata una mensola di marmo su cui vi era tutto l’occorrente per preparare la colazione: dal burro alle uova, dalla marmellata allo zucchero. Al centro troneggiava un tavolino che misurava più o meno un metro per lato e quattro sedie impagliate a completamento del modesto arredo.

   -       Avete mai assaggiato un tè persiano?

   -       No, signore. Solo latte di capra, la mia.

   -       Questo tè va sorseggiato secondo la sua antica tradizione.

 

Dopo avermi fatto accomodare sulla sedia, appoggiò due tazze sul tavolo e iniziò a versare al loro interno prima un cucchiaio abbondante di quell’erba speciale, a suo dire, poi l’acqua fumante.  Come un’alchimista concentrato, continuò a rimestare e pestare l’intruglio senza dire una parola. Ed io mi limitai ad osservarlo con curiosità. Quando finì, mi avvicinò una delle due tazze facendola strisciare sull’incerata sospingendola con la punta delle dita grosse e callose.

   -       Aspettate, manca lo zucchero. È proprio qui che si cela il segreto della sua bontà. Prendete una zolletta di zucchero, mettetela in bocca stringendola tra gli incisivi e usatela come se fosse un colino.

 

Feci una smorfia da ebete, ero convinto che mi stesse canzonando. Ma continuavo a non capire o meglio mi rifiutavo di pensare che il capitano fosse un vero pazzo.

   -       Che vi prende, ragazzo? Non è mica cicuta. Pensate che io sia un ciarlatano?

   -       No, signore. Io ho sempre diluito lo zucchero nella bevanda non l’ho mai trattenuto tra i denti.

   -       Su, non siate sciocco. Guardatemi e imparate. Seguii le sue istruzioni. Sembrava più un gioco da bambini che una cosa seria da uomini. Avrei voluto che mio padre fosse lì in quel preciso istante di fronte a due stupiti con zollette candide strette tra i denti ingialliti dal tabacco e le tazze piene di bevanda amara come cicoria. Ma devo ammettere che questa usanza persiana di degustare il tè non è stata un’esperienza traumatica.

 

   -       Capitano Watt, che cosa sono tutte quelle luci? Sembra fuoco.

<<Si dice che su quell’isola trovò rifugio una ragazza sfuggita alla guerra civile che imperversava nel suo paese. Pare che fosse riuscita ad imbarcarsi indossando gli abiti di suo padre, ucciso da una pallottola vagante. A quell’epoca le donne non erano ammesse a bordo, portavano sfortuna al viaggio. Giunta sull’isola, la ragazza fu affascinata dalla filosofia primordiale di quei popoli lontani dalla civiltà del mondo moderno “Vivere in armonia con l’ambiente circostante”.

<<In pochi anni riuscì ad imporsi come guida spirituale e ogni sera riuniva i suoi seguaci in riva al mare per il rito della liberazione. Non usavano la forza del pensiero ma tante piccole mongolfiere che, munite di un apposito braciere, si libravano in volo grazie al riscaldamento costante dell'aria al loro interno. Ogni abitante affidava al proprio pallone di carta i desideri comuni a tutta la popolazione: pace, amore e serenità interiore.

<<Fiammetta, questo è il nome che le attribuirono gli isolani, invitava tutti a desiderare un mondo migliore privo di guerra, inquinamento e consumismo esasperato. “Per essere felici bastano poche cose. Difendiamo i quattro elementi che compongono l'ambiente: acqua per dissetarci e lavarci, terra per coltivare frutta e verdura, fuoco per riscaldarci e cucinare, aria pura da respirare a pieni polmoni”, questo predicava instancabilmente e con convinzione>>.

 

   -       Da anni ormai la tradizione delle mongolfiere luminose continua senza sosta come un monito per tutti gli uomini. Noi naviganti abbiamo preso l’abitudine di chiamare quel lembo di terra Isola di Fuoco.

Adesso avete su di voi il peso della responsabilità perché dovrete raccontare la storia di Fiammetta a parenti ed amici affinché le vostre parole possano illuminare l’anima rabbuiata di ciascuno di loro.

   -       Grazie, signore per il tè bollente e per le vostre calde parole di insegnamento e d’affetto. Grazie per la fiducia che mi avete accordato. Non vi deluderò. Parola di Alan Zed.

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