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Telefonando alla direzione, un'allegra voce mi disse che Lo era stata prelevata il giorno precedente da suo zio Gustave. Trasalii: quale zio? Deglutii e, sforzandomi di restare lucido, mi feci descrivere il fantomatico Gustave, un tipo alto, corpulento, dall'aria bonaria e con indosso un cappotto di pelle marrone. Mi precipitai nella zona dell'ospedale senza neppure riagganciare il ricevitore; interrogai baristi, infermieri, negozianti... non era possibile che non avessero notato la mia splendente bambina accanto a quella rozza bruta montagna umana. Erano troppo presi dai loro meschini impieghi per accorgersi di una magica ninfetta che passava dinanzi ai loro ciechi occhi. Mi aggirai come un fantasma dannato e furioso lungo un percorso ipotetico tracciato da labili indizi; un anno trascorso sulle tracce di quell'abominevole rapitore. La mia esperienza zingaresca fu interrotta quel dì in cui qualcuno (non ricordo neppure chi fosse, nell'estasi totale) mi fornì l'indirizzo di una certa Dolores H. che viveva da quelle parti. Mi precipitai al recapito fornito, ove una timida incerta Lo mi aprì la porta di una modesta deliziosa casetta. Varcai a stento la soglia e lei mi domandò cosa volessi. Io ero preso e scandalizzato da come aveva scempiato il suo aspetto: gli occhi grigi, scialbi e vacui, le si erano accesi di compitezza; si era tagliata i graziosi boccoli castani tessuti da un angelo e cosparsi di polvere d'oro che amavo alla follia; i suoi atteggiamenti fanciullescamente lascivi che un tempo mi facevano ardere i lombi erano divenuti posati, maturi, degni di Charlotte. La dimora traboccava di enciclopedie e libri impegnativi, non v'era traccia di fumetti o giornaletti demenziali per adolescenti. Uno di questi libri era posizionato sul grembo della mia amata, la quale manteneva segnata la pagina fino ad allora letta con un segnalibro, come avevo visto fare ad una mia collega trentenne. La mia Lo una donnina acculturata in erba? E dov'erano quei leggiadri abiti sbarazzini che ne esaltavano la giovane femminea beltà? Mi ripropose la domanda, stavolta con austera insistenza ed una sorta di indolenza nella voce. Io, d'istinto, le risposi che volevo affrontare il bruto che l'aveva rapita, intanto stringevo la rivoltella in tasca. Quegli occhi grigi si rabbuiarono e, mentre farfugliava di non essere stata rapita, entrò una ragazza pressappoco coetanea di Dolly, forse di qualche anno più grande: viso pallido e triangolare, capelli lunghi liscissimi nero corvino scarmigliati, esile,di statura piccola, con un abbigliamento lasciato al caso e due occhi azzurri felini e demoniaci.
"Chi siete, voi?" si rivolse sfacciatamente a me quello scricciolo.
"È solo mio padre, Frieder. Se ne stava andando." pronunciò Lo sempre più seriosa.
Non la riconoscevo più, dov'era il mio solare tesoro? All'improvviso, mi scorrevano davanti dei flash e tutto mi fu chiaro: il campo Q., il desiderio di recitare, Frieder la mezza tedesca, la fuga... non c'era nessun bruto, il tizio col cappotto di pelle marrone era soltanto un aiutante (assoldato chissà dove e pagato di certo coi regali che feci alla mia Lo), il bruto era Frieder! Sarebbe stato più facile del previsto, allora: non avrei dovuto crivellare un gorilla furente, mi bastava separare due longilinee fanciulle. In preda ad un fremito malato ed isterico, afferrai Lolita per il polso, facendola gemere, e alzai la voce come non mai, assomigliando più ad uno strillone che a un tranquillo professore. Doveva venire con me, lo esigevo, le avrei dato tutto, dicevo, strattonandola. Lo impuntò i piedi, con espressione capricciosa (riaffiorava qualcosa della mia ninfetta) e sfilò l'ossuto polso dal mio grosso pugno con un no secco.
"Vieni, Lolita!" imperai; Frieder mi si mise di fronte, sfidandomi anche fisicamente a dispetto della sua sottile figura, mi trafisse con gli occhi di zaffiro e puntualizzò acida e tagliente: "Si chiama Dolores. E non va da nessuna parte con un farabutto!"
Io farabutto? Quella piccola impertinente gatta mi fece salire il sangue alla testa, la mia Amica in tasca fremeva almeno quanto me, sicché la estrassi e la puntai verso la divetta dell'odio. Gesticolando le ordinai di lasciarci passare; naturalmente non avevo intenzione di usare la mia calibro 38, ma volevo sottolineare la mia determinazione. Continuando a trapassarmi con le sue lame di ghiaccio azzurro, Frieder si fece da parte, impassibile. Le sfilai davanti, trascinandomi Lo tremante e piagnucolante. Poiché non sono mai stato un vero criminale, alla divetta non risultò difficile assestarmi un pesante tomo di botanica –credo– dietro la nuca. Caddi in ginocchio sul lustro pavimento e, con fare furtivo di felino, Frieder mi sottrasse la mia Amica, puntandomi addosso entrambe le armi: la rivoltella ed i suoi occhi. Seguì un silenzio concitato e palpitante. La piccola Haze faceva capolino alle spalle della compagna, adagiandole sulle braccia le sottili dita brune. La gatta le sfiorò le dita con la mano libera, intrecciandole poi con le proprie e formando così una treccia mezza nereggiante mezza nivea. Ed io ero lì, costretto ad assistere impotente a quel gesto con vaghi baluginii di tenerezza saffica, o forse erano le mie allucinazioni. Frieder parve ricordarsi solo allora di me (ma se così fosse stato, non mi avrebbe tenuto ancora sotto tiro), mi lanciò un'occhiata disgustata e mi gridò che dovevo pagarla, dovevo pagare caro tutto il male che avevo fatto a Dolores, la sua Dolores. Avrebbe dovuto sapere quanto ne aveva fatto Dolly a me! Mi ingiuriò ancora un poco, infine sollevò leggermente il mento e, con un'efferatezza degna di un gangster, inflessibile, esplose un colpo sordo. Dopo il boato, una fitta scottante e lancinante all'addome, una pozza rossa sotto di me, le gocce scure del mio sangue sull'arto candido della mia aguzzina. No, non potevo abbandonare il mio amore alla mercé di quella cinica precoce sicaria che l'aveva tramutata in una grigia piatta sgobbona nel giro di solo un anno! Ma sentivo le forze venirmi meno e la stanza era avvolta da una nebbia sempre più densa. Si abbracciarono, i loro profili si avvicinarono e io protesi la mano nel vano patetico tentativo di strappare quella straziante diapositiva in cui ero immerso.
"Nessuno ti farà mai più del male, te lo prometto!" sentii pronunciare alla mora dagli occhi glaciali, mentre avviluppava la gracile figura di Lo tra le sue braccia ancor più esili. I miei occhi morenti le videro carezzarsi languidamente, ma non mi permisero di verificare se le loro labbra si sfiorarono oppure no, poiché si affievolirono contro la mia volontà e mi catapultarono nel buio più totale. Tutto ciò che restava del professore Humbert: una gelida salma sul pavimento macchiato di rosso, una rivoltella gettata sul divano con un colpo in meno in canna e due ragazzette... una ninfetta e una divetta, due creature magiche e fragili all'apparenza, che erano riuscite a far impazzire, patire e perire disperato un assennato quarantenne...