Afferrò il coltello che aveva ucciso Basil Hallward con la pallida e gelida mano, lo strinse forte in essa. Il pensiero che forse era tempo di farla finita gli balenò nella mente.
<<Dio perdonerà la malvagità del mio essere se vede in me sincero pentimento, se osserva il mio gesto...>> sussurrò.
Con chi stava parlando? Con se stesso o al quadro?
Sollevò lo sguardo sull’essere immondo del ritratto, lentamente come se lo temesse e forse si, lo temeva.
Non era semplicemente la prova indiscussa della sua cattiveria.
Lui sapeva. Lui era il solo che potesse giudicarlo per come era realmente. Era la sola prova.
Temeva un pezzo di tela imbrattato di vernice più della lama di un pugnale?
L’essere orribile nel dipinto sembrò sorridergli con spavalderia e qualcosa nel giovane si riempi di rabbia furibonda.
Gelido, imperscrutabile e bellissimo come una statua di marmo, si portò di fronte alla sua nemesi con passi lenti e solenni.
Il silenzio era quasi palpabile e venne interrotto dal suono della tela che veniva lacerata.
Lo splendido giovane crollò a terra sulle sue ginocchia, lo sguardo vitreo, freddo come la lama che stringeva in mano, seguì i movimenti del dipinto che si staccò dalla cornice e scivolò sul pavimento di fronte a lui.
Perché avrebbe dovuto farlo? Perché doveva sacrificare la usa intera, splendida esistenza per l’ipocrisia? Lui era un mostro, lo era sempre stato.
Non era stato il suo silenzioso patto diabolico a renderlo così, lo sarebbe diventato in ogni caso, ne era perfettamente consapevole.
Adesso le cose sarebbero cambiate, vivere nel terrore e nella paranoia. Era follia.
Nessuno avrebbe scoperto il suo infernale segreto perché lo avrebbe tenuto per sempre con se. La sua anima impura sarebbe rimasta vicina al suo corpo.
Afferrò la tela, la strinse delicatamente fra le sbraccia, come se fosse un debole essere vivente in fin di vita, ne carezzò il retro ruvido, quasi la coccolava. Mormorò qualcosa di impercettibile e poco dopo ghignò come fanno i diavoli. Fu allora, solo per quell’istante, che si poté riconoscere nel volto del ragazzo, lo stesso sguardo che vi era nel quadro.
L’essenza della malvagità.
Arrotolò la tela delicatamente, se la mise sotto braccio con cura, tornò al piano di sotto senza fare rumore, la casa era deserta, i domestici tutti nelle loro stanze. Si mise il soprabito e uscì dalla sua dimora scomparendo così come era arrivato, nella notte nera come i suoi pensieri.
Diversi anni dopo...
In un tiepido pomeriggio di primavera Dorian sorseggiava del tè sulla veranda della sua nuova residenza estiva. Aveva chiuso con il passato, se ne era fatto una ragione quella notte di tanti anni addietro. Quando tagliò la tela dalla cornice sentii come una sorta di supplica dalla sua anima immortalata per sempre. Per poter sconfiggere quella sensazione di mal essere che lo perseguitava doveva essere certo che nessuno avrebbe trovato il quadro, che la sua rispettabile reputazione fosse inespugnabile. Non erano i rimorsi e i sensi di colpa o lo scarso interesse per i piaceri della vita già provati. A farlo stare male ma più semplicemente la paura che qualcuno potesse sapere.
Semplice ed egoistico perbenismo.
Aveva riacquistato il piacere della vita e la serenità da quando il quadro stava sempre con lui. Viveva come aveva sempre vissuto, nel benessere e nel piacere del corpo e della mente.
Non sapeva se sarebbe vissuto per sempre o se semplicemente il suo corpo un giorno si sarebbe spento, nell’apparente fior fiore degli anni, ma non voleva tediarsi oltre con questi pensieri funesti. Avrebbe affrontato la vita come aveva sempre fatto, senza curarsi delle conseguenze, del resto lui era Dorian Gray.